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L’ASSEGNAZIONE della casa coniugale

La casa coniugale rappresenta uno dei principali motivi di conflitto nelle controversie di separazione e divorzio, sia per ragioni di natura affettiva, che per motivi economici.

 

Il provvedimento di assegnazione della casa coniugale può essere emesso dal Tribunale solo in presenza di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti economicamente.

 

Indubbiamente, il suddetto provvedimento di assegnazione comporta un deterioramento della condizione economica del coniuge non assegnatario, che spesso si deve allontanare dalla casa coniugale anche ove ne sia il proprietario esclusivo, magari ancora gravato del relativo mutuo da pagare.

 

Questo accade perché il criterio che governa la decisione sull’assegnazione della casa familiare è – esclusivamente – la tutela del primario interesse dei figli che hanno il diritto alla conservazione dell’ambiente domestico in cui hanno vissuto e dove hanno i loro punti di riferimento.

 

L’art. 337 sexies comma 1 del Codice Civile prevede infatti espressamente che:

 

“il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”.

 

Per quanto detto, quindi, è evidente che la casa familiare verrà assegnata al genitore con il quale la prole convivrà prevalentemente, ovvero il cd. genitore collocatario.

 

La prioritaria tutela della prole riguarda tanto i figli minorenni, quanto i figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti che convivano stabilmente e continuativamente nella casa familiare ed a cui non sia attribuibile la colpa della propria mancata autosufficienza.

 

La decisione sull’assegnazione della casa coniugale prescinde dunque:

  • sia dal titolo di proprietà dell’abitazione;
  • sia dalla situazione economica dei coniugi, in quanto essa non costituisce una componente dell’eventuale assegno di mantenimento, o divorzile, dovuto al coniuge economicamente più debole.

 

È ovvio però che, nel caso in cui la casa venga assegnata al coniuge prevalentemente convivente con la prole, il quale sia anche destinatario di un assegno di mantenimento o divorzile, il giudice – nella quantificazione dell’assegno al coniuge – terrà certamente conto della disponibilità dell’abitazione familiare, avendo essa indubbi riflessi economici nel nuovo assetto complessivo della famiglia separata.

 

In virtù del provvedimento di assegnazione della casa coniugale, il coniuge assegnatario che non sia anche titolare di un diritto di proprietà o di godimento sulla stessa, acquisirà un diritto personale di godimento sull’abitazione e non un diritto reale (Cass. civ., sez. I, 3 marzo 2006, n. 4719).

 

Ne consegue che il proprietario dell’immobile resterà obbligato al pagamento delle tasse sulla proprietà della casa, delle spese straordinarie afferenti l’immobile e delle eventuali rate di mutuo, mentre resteranno a carico del coniuge assegnatario non proprietario gli oneri condominiali ordinari e tutte le spese di manutenzione ordinaria nell’immobile.

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CODICE ROSSO: legge contro la violenza domestica e di genere

Il Parlamento ha approvato il Codice Rosso, la legge contro la violenza sulle donne. Tempi più rapidi per il processo, pene più dure e soprattutto introduzione di nuovi reati: il revenge porn e le lesioni permanenti al voto.

 

Sulla G.U. del 25 luglio 2019 è stata pubblicata la Legge 19 luglio 2019, n. 69 denominata “Codice Rosso”, in vigore dal 9 agosto.

 

Il Codice è stato concepito come canale preferenziale per offrire tutele in tempi brevi alle vittime di violenza, donne e minori in particolare, favorendo un celere avvio del procedimento penale per alcuni reati tra cui maltrattamenti in famiglia, stalking, violenza sessuale.

 

Si compone di 21 articoli che:

 

  • Individuano una serie di condotte attraverso cui si pone in essere la violenza domestica e di genere introducendo nuove fattispecie di reato.
  • Inaspriscono le pene già previste dal codice penale per alcuni reati, aumentano la durata delle misure cautelari, inaspriscono le aggravanti.

 

PRINCIPALI NOVITÀ

4 NUOVI REATI:

 

  • Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate c.d. revenge porn (art 612 ter).
    Il reato è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5mila a 15mila euro: la pena si applica anche a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video, li diffonde a sua volta per provocare un danno agli interessati. La fattispecie è aggravata se i fatti sono commessi nell’ambito di una relazione affettiva, anche cessata, ovvero mediante l’impiego di strumenti informatici.
  • Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 583-quinquies).
    Il reato è punito con la reclusione da otto a 14 anni; la pena è l’ergastolo quando, per effetto del delitto in questione, si provoca la morte della vittima.
  • Costrizione o induzione al matrimonio (Art. 558-bis).
    Il reato è punito con la reclusione da uno a cinque anni. La fattispecie è aggravata quando il reato è commesso a danno di minori e si procede anche quando il fatto è commesso all’estero da o in danno di un cittadino italiano o di uno straniero residente in Italia.
  • Violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (Art. 387-bis), sanzionato con la detenzione da sei mesi a tre anni.

 

AVVIO DEL PROCEDIMENTO VELOCE E TEMPESTIVO

 

Garantito maggior impulso e celerità nella comunicazione della notizia di reato.

 

La Polizia Giudiziaria dovrà portare a conoscenza del Pubblico Ministero, immediatamente, anche in forma orale, una notizia di reato relativa a delitti di violenza domestica e di genere, anche qualora la parte offesa non voglia formalizzare la denuncia, al fine di scongiurare ritardi che possano precludere l’adozione di misure e provvedimenti urgenti a tutela della vittima e l’acquisizione di eventuali elementi probatori.

 

Il Pubblico Ministero, nelle ipotesi ove proceda per i delitti di violenza domestica o di genere, dovrà escutere la vittima entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, termine prorogabile in presenza di imprescindibili esigenze di tutela di minori o della riservatezza delle indagini, pure nell’interesse della persona offesa.

 

Gli atti d’indagine delegati dal pubblico ministero alla polizia giudiziaria devono avvenire senza ritardo. 

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MANTENIMENTO dei figli maggiorenni

Con una recente sentenza (n. 19696/2019), la Cassazione torna sulla questione del mantenimento dei figli maggiorenni, statuendo su due rilevanti profili:

  • la ripartizione dell’onere probatorio sulla capacità lavorativa del figlio maggiorenne;
  • l’esclusione di una “reviviscenza” dell’obbligo del genitore al mantenimento.

 

La sentenza della Corte di Appello (CdA Napoli 542/2017), cassata dagli Ermellini, aveva riconosciuto il diritto al mantenimento in favore di due ragazzi ultratrentenni con la motivazione che il genitore obbligato non aveva fornito la prova dell’effettiva e stabile autosufficienza e/o della responsabilità dei figli per la mancata acquisizione di un’occupazione che li rendesse indipendenti.


Premette la Corte di Cassazione che “l’obbligo del mantenimento dei genitori consiste nel dovere di assicurare ai figli, anche oltre il raggiungimento della maggiore età e in proporzione alle risorse economiche del soggetto obbligato, la possibilità di completare il percorso formativo prescelto e di acquisire la capacità lavorativa necessaria a rendersi autosufficiente”.


Proseguono i giudici di palazzaccio ritenendo, tuttavia, non condivisibile la linea interpretativa della CdA di Napoli e fornendo importanti precisazioni in tema di ripartizione dell’onere probatorio.
Stabilisce infatti la Corte che:

 

“La prova del raggiungimento di un sufficiente grado di capacità lavorativa è ricavabile anche in via presuntiva dalla formazione acquisita e dalla esistenza di un mercato del lavoro in cui essa sia spendibile.
La prova contraria non può che gravare sul figlio maggiorenne che, pur avendo completato il proprio percorso formativo, non riesca ad ottenere, per fattori estranei alla sua responsabilità, una sufficiente remunerazione della propria capacità lavorativa”.

 

Non solo, anche nel caso in cui il figlio riuscisse a fornire tale prova, andranno comunque valutati altri fattori:

 

“La distanza temporale dal completamento della formazione, l’età raggiunta ovvero gli altri fattori e circostanze che incidano comunque sul tenore di vita del figlio maggiorenne e che di fatto lo rendano non più dipendente dal contributo proveniente dai genitori”.

 

Il secondo profilo rilevante affrontato nella sentenza riguarda l’esclusione della reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento.


Nel caso di specie, infatti, uno dei due figli, dopo avere lavorato per due anni, aveva poi percepito solo redditi eccessivamente modesti o inesistenti.


La Corte ha statuito sul punto precisando che “la percezione di una retribuzione sia pure modesta ma che prelude a una successiva spendita dalla capacità lavorativa a rendimenti crescenti segnala fine dell’obbligo di contribuzione da parte del genitore e la successiva eventuale perdita dell’occupazione o il negativo andamento della stessa non comporta la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento”.

 

Nel caso in esame, la Corte territoriale neppure ha adeguatamente valutato una serie di ulteriori e rilevanti circostanze quali “l’effettività o meno della convivenza dei figli con la madre, l’età ormai ampiamente superiore ai trent’anni di entrambi i figli, il tenore di vita di cui dispongono”.

 

Su tali circostanze si sarebbe, invece, dovuto attivare l’onere probatorio gravante sui soggetti richiedenti il contributo al mantenimento.

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Il “NUOVO” assegno divorzile: addio al tenore di vita

I NUOVI CRITERI PER L’ATTRIBUZIONE E LA DETERMINAZIONE ALLA LUCE DELLA SENTENZA S.U. CASSAZIONE 18287/2018

 

Come è noto, la sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha costituto un vero e proprio cambio di rotta nei criteri di riconoscimento e di quantificazione dell’assegno divorzile, componendo il contrasto venutosi a creare tra lo storico e consolidato orientamento – secondo cui al coniuge avente diritto andava garantito un assegno tale da consentirgli di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio – e l’orientamento più recente, affermatosi dopo la sentenza della Corte di cassazione n. 11504 del 2017, secondo cui andava negato il riconoscimento dell’assegno divorzile al richiedente che fosse economicamente autosufficiente (in tal senso si veda anche la sentenza n. 23602/2017).

 

L’intervento delle Sezioni Unite nella composizione del conflitto è stato orientato a riaffermare il principio di solidarietà post-coniugale, agganciato ai parametri costituzionali ex artt. 2 e 29 Cost., contemporaneamente fornendo però gli strumenti interpretativi atti ad evitare l’applicazione di qualsiasi automatismo nell’attribuzione e nella determinazione dell’assegno divorzile, slegandolo sia dal criterio del tenore di vita (cfr. Cass., SU, n. 11490 del 1990) che da quello criterio dell’autosufficienza (cfr. Cass. n. 11504 del 2017).

 

In sostanza, la linea interpretativa della sentenza delle Sezioni Unite si sintetizza nei seguenti punti:

  1. definitivo abbandono di entrambi i criteri elaborati sulla base dei precedenti orientamenti tra di loro contrastanti (tenore di vita ed autosufficienza economica del richiedente);
  2. abbandono della rigida distinzione tra natura attributiva e determinativa dei criteri richiamati dall’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio, in favore di una interpretazione costituzionalmente orientata fondata sugli art. 2, 3 e 29 della Costituzione
  3. riconoscimento della natura composita dell’assegno divorzile: assistenziale e perequativa /compensativa;
  4. riconoscimento della posizione equiordinata dei criteri previsti all’art. 5, sesto comma, della Legge n. 898/1970;
  5. abbandono di una concezione astratta del criterio “adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi” a favore di una visione volta a contestualizzare tale criterio nella specifica vicenda coniugale;
  6. necessità della valutazione dell’intera storia coniugale e di una prognosi futura che tenga conto delle condizioni dell’avente diritto all’assegno (in base all’età e allo stato di salute etc.) e della durata del matrimonio;
  7. importanza del profilo perequativo-compensativo dell’assegno e necessità di un accertamento rigoroso del nesso di causalità tra scelte endofamiliari e situazione dell’avente diritto al momento dello scioglimento del vincolo coniugale.

 

Il giudice dovrà quindi procedere come segue:

  1. accertare e comparare, anche utilizzando i suoi poteri ufficiosi, le condizioni economico-patrimoniali delle parti;
  2. ove risulti l’inadeguatezza dei mezzi del richiedente, o, comunque, l’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, ne deve accertare rigorosamente le cause, alla stregua dei parametri indicati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, prima parte, indagando, in particolare, se la sperequazione eventualmente accertata sia diretta conseguenza del contributo fornito dal richiedente alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune e personale di ognuno dei coniugi, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all’età dello stesso ed alla durata del matrimonio;
  3. da ultimo, dovrà quantificare l’assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita familiare, né al parametro della autosufficienza economica, ma in misura tale da garantire all’avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo sopra richiamato.

 

In conformità ai nuovi criteri interpretativi fissati dalle S.U. del 2018, in una recente sentenza (Cass. n. 21228/2019) gli Ermellini hanno avuto modo di esprimere il seguente principio di diritto:

 

Il giudice deve quantificare l’assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita famigliare, ma in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l’indipendenza economica del coniuge non autosufficiente, intendendo l’autosufficienza in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza, ed inoltre, ove ne ricorrano i presupposti, a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato, in funzione di contribuzione ai bisogni della famiglia, a realistiche occasioni professionali-reddituali, attuali o potenziali, rimanendo in ciò assorbito, in tal caso, l’eventuale profilo assistenziale.